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A cosa serve meditare

A cosa serve meditare?

Approfondimento n°9

Buddha diceva che la meditazione è un cammino di gioia che porta alla massima felicità: parla di un cammino perché è un processo che dura tutta la vita e può essere intrapreso da chiunque a prescindere dall’età, dal orientamento spirituale, dal credo religioso… non c’è un momento giusto o sbagliato e non è mai troppo tardi!

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Buddha diceva che la meditazione è un cammino di gioia che porta alla massima felicità. È un cammino perché è un processo che dura tutta la vita e può essere intrapreso da chiunque a prescindere dall’età, dall’orientamento spirituale, dal credo religioso. Non c’è un momento giusto o sbagliato e non è mai troppo tardi. Semplicemente si può iniziare in qualsiasi momento. Non si tratta di una pratica ritualistica, di qualche esperienza trascendentale o di stato di coscienza alterato.  Diciamo che queste sono dimensioni che possono costituire un aspetto di alcune discipline meditative, ma l’insegnamento fondamentale della meditazione è davvero molto più semplice e il senso ultimo è stare meglio nella nostra vita quotidiana, nelle relazioni, nel lavoro, nella famiglia, negli impegni. 

Proviamo a chiederci se viviamo la nostra vita con generosità, gentilezza e sensibilità, se riusciamo ad affrontare le difficoltà con comprensione, se siamo in grado di accettare ciò che accade nella mente e nel corpo e soprattutto se riusciamo a coltivare uno spazio di pace nel caos della vita occidentale. Sono queste le domande che sono alla base di un’esperienza di meditazione o di chi vuole iniziare un percorso di meditazione. Con la medicazione e con l’attenzione consapevole impariamo a coltivare questi desideri di pace, di benessere e di metterli al centro della nostra vita. Iniziamo a scoprire che cosa significa essere più vigili, presenti alle gioie e alle difficoltà di tutto quello che accade ogni giorno. Invece di sentirci trascinati, di vivere come degli zombie in mezzo al caos e sballottati qua e là, riusciamo a ritagliarci dei momenti di pace e di presenza e soprattutto di intima connessione con noi stessi. Non ci lasciamo più dominare dai pensieri ossessivi e caotici. Magari li vediamo, magari ci sono ancora perché prima che se ne vadano ci vuole tempo, ma riusciamo a riequilibrare questi stati di alterazione emotiva e soprattutto ad avere uno strumento per avvicinarci a loro e a farlo in maniera costruttiva, qualcosa che serva a noi e al nostro benessere. 

La meditazione non è teorica: possiamo leggere tantissimi libri e studiare tantissimo ma è una materia profondamente esperienziale. La sua profondità e l’efficacia dipendono dalla nostra disponibilità a coltivarla, dal tempo che vogliamo dedicarci. Con questo non voglio dire che serva per forza mezz’ora al mattino e mezz’ora alla sera. Io stessa vivo una vita molto densa, impegnata e carica di appuntamenti e cose da fare e la meditazione non deve diventare qualcosa da aggiungere in più per trovare un altro modo per giudicarci se non facciamo bene o aggiungere altra ansia da prestazione alle nostre giornate. Ci sono strategie e modi per coltivare presenza anche facendo e vivendo le nostre giornate. Ovviamente man mano saremo poi noi stessi a ricercare altri spazi a ritagliarci altri momenti di quiete e di calma. Più impariamo a diventare attenti e presenti alla nostra vita, più ci rendiamo conto di come noi influenziamo il nostro mondo e di cosa noi proiettiamo nelle cose che accadono attorno a noi o nelle relazioni. Questa capacità da coltivare di rimanere vigili, presenti, a me piace dire “vivi”, è il punto di partenza. Questo non significa che la meditazione ci porti perennemente in uno stato di benessere, felicità, quiete e pace. Non possiamo evitare la vecchiaia, la morte, le malattie, i lutti, i dolori, gli stati di angoscia, però possiamo affrontarli senza caricare ulteriormente. Il Buddha parlava delle due frecce: la prima freccia, quella del dolore che fa parte della vite, è inevitabile, ma possiamo osservare la nostra mente ed evitare di scagliare altre frecce, altri dolori, altra sofferenza. E comunque impariamo che non c’è un “io”, una definizione stabile e precisa di quello che sono e di quello che non sono. Spesso con le parole ci definiamo: io sono bravo, io sono pigro, io sono lento, io sono un procrastinatore seriale. Le parole hanno un’energia. Più facciamo esperienza, invece, di quanto tutto sia mutevole e in trasformazione, più riusciamo a rientrare anche noi in questo flusso di trasformazione mutevole, a smettere di etichettarci e credere nella possibilità trasformativa di noi stessi e delle nostre vite. Tutto questo comincia con la consapevolezza.

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