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Mindfulness e Dolore Cronico

Mindfulness e Dolore Cronico

Approfondimento n°7

Ci sono due modi in cui la meditazione può essere d’aiuto in caso di dolore cronico:

1. Può aiutare ad elaborare meglio l’esperienza del dolore, quindi agendo sulla componente psicologia e creando un sano distacco dal dolore

2. Ma può aiutare anche dal punto di vista fisico, cambia la neuroplasticità del cervello e le aree di attivazione del dolore fisico

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Dopo un sacco di tempo sono qui seduta davanti al microfono nuovo, quindi le impostazioni sono ancora da migliorare. Con me c’è Mitzy che si sta strusciando sul tavolo: è uno dei miei gatti.

Vorrei parlare di come la meditazione possa essere d’aiuto all’interno delle patologie con dolore cronico. Sono stata invitata recentemente a parlare di questo all’interno di un gruppo di auto mutuo aiuto che si occupa di pazienti affetti da fibromialgia. Ho pensato potesse essere un ottimo argomento anche per il podcast. I motivi per cui ci si avvicina alla meditazione possono essere tantissimi, ma lo scopo principale per cui meditiamo è quello di re-imparare (perché da bambini siamo già bravissimi) a essere totalmente in contatto con il momento presente. Se è un momento doloroso emotivamente o fisicamente, perché dovrei voler essere in contatto pienamente con quel momento? Sembra un controsenso. In realtà riconoscere come stiamo, riconoscere le nostre emozioni e le sensazioni del nostro corpo fisico mentre le stiamo provando ci apre alla possibilità di capire in quale modo entrare in relazione con quel momento presente, ci permette di non essere in balia della nostra mente, dei suoi pensieri, delle sue paure, degli schemi di comportamento che ha imparato fin da piccola per crescere e difendersi. Ci permette in sostanza di recuperare libertà e anche un contatto amorevole e autentico con noi stessi e con quello che effettivamente c’è. A me piace pensare alla meditazione come a un viaggio di conoscenza, di scoperta e amicizia con noi stessi. Se ci pensiamo bene, siamo la persona con cui di certo passiamo più tempo in assoluto, quindi vale la pena di provare a passare bene questo tempo, imparare a volerci bene e a stare bene con noi stessi.

Che relazione c’è tra la meditazione e il dolore? Normalmente per dolore si intende un’esperienza multi-sensoriale, un’esperienza che coinvolge un livello fisico, un livello cognitivo, un livello emozionale. Il dolore non è solo nel corpo ma si aggiungono vari strati che vanno a coinvolgere la mente, i pensieri, le paure su quel dolore. In sé non è un’esperienza negativa, anzi, ha avuto una funzione importante nell’evoluzione dell’uomo. Ovviamente le cose cambiano se il dolore diventa uno degli      elementi principali della vita di una persona. Nei casi di cronicità, in particolare, si tende a intervenire con cure molto lunghe e costose, non sempre efficaci e che in alcuni casi possono portare anche a farmaco-dipendenza. La meditazione può essere d’aiuto in due modi per il dolore cronico: può aiutare a elaborare meglio l’esperienza del dolore, agendo proprio sulla parte emotiva, sui livelli che andiamo ad aggiungere con la nostra testa e con i nostri pensieri, con le nostre emozioni; può aiutare anche da un punto di vista fisico, perché cambia la neuro plasticità del cervello e le aree di attivazione del dolore fisico. Ovviamente non stiamo parlando di risultati che si ottengono meditando una sola volta, ma ci sono parecchi studi scientifici che hanno riscontrato risultati tangibili e misurabili dopo relativamente poco tempo: li vediamo più avanti con calma. In ogni caso, l’approccio alla meditazione deve essere visto un po’ come un percorso, come un addestramento, una sorta di palestra. Come andiamo in palestra più volte alla settimana per allenare i muscoli, se vogliamo vedere dei risultati, lo stesso vale per la meditazione: non è una cosa che si può fare una volta ogni tanto o andare in ritiro per una settimana e poi non occuparsene più al rientro a casa. Deve essere una cosa che pian piano viene integrata, anche per pochi minuti al giorno, nella nostra quotidianità.

Quando parliamo di meditazione per elaborare meglio l’esperienza del dolore, mi viene in mente uno dei principali o più conosciuti del Buddha, che è quello sulle due frecce. È un discorso molto lungo. Il Buddha sta parlando delle differenze tra la mente di chi pratica e di chi non lo fa. A un certo punto dice: è come se un arciere, dopo aver colpito un uomo con una freccia, lo colpisse ancora con una seconda freccia, sicché quell’uomo patirà il dolore di due ferite. Lo stesso accade a chi non pratica, che soffre a causa di due dolori: quello fisico e quello che mentale. Fondamentalmente, sta dicendo che sia chi pratica sia chi non pratica nella vita prova sensazioni di vario tipo, piacevoli, spiacevoli o neutre, quindi la meditazione non fa diventare automaticamente sempre felici, sempre rilassati, sempre positivi, ma quello che può fare è cambiare il modo in cui si reagisce alle sensazioni spiacevoli. Le sensazioni spiacevoli, nell’esempio che fa il Buddha, sono la cosiddetta prima freccia, che non si può evitare perché nella vita le sensazioni spiacevoli ogni tanto ci sono, fanno parte del tutto. Possiamo però evitare di aggiungere altre frecce, cioè di andare ad aggiungere dolore alla sensazione spiacevole che già c’è. Quindi, mentre chi non pratica tenderà a essere catturato dalla sensazione spiacevole, ad agitarsi, a preoccuparsi, colui che invece ha familiarità con la sua mente avrà uno strumento in più per fermarsi prima di scagliare altre frecce o almeno per ridurre il numero di frecce. Siamo sempre all’interno di un percorso fatto di fasi, di tempi e non per forza lineare. Imparare a stare con la prima freccia, quindi con la sensazione spiacevole e il dolore fisico, vedendola per quella che è e praticando giorno dopo giorno l’impermanenza di tutte le cose e di tutte le sensazioni che, così come vengono, vanno, abbiamo la possibilità di riscoprire ancora una volta un pezzetto di libertà e un approccio più leggero che una mente che sfugge, che non vuole sentire, che scappa perché ha paura o cerca di soffocare ogni sensazione fastidiosa con rumore o distrazione, non ha. Meditare permette di fare esperienza dei propri pensieri, di vederli, un po’ come le nuvole che attraversano il cielo, ma di non essere completamente catturati da quei pensieri e da quelle nuvole. La mente di chi pratica, di chi osserva, rimane cielo e vede passare davanti una serie di sensazioni fisiche, sensazioni emotive, pensieri senza farsi catturare o almeno lasciando andare se si accorge che si è fatta catturare. Se riesco a osservare il pensiero che sta vedendo il fastidio fisico, che magari lo interpreta cerca di capirlo, di spiegarlo, che ci va ad aggiungere altri pensieri… appena mi accorgo di tutto questo rimuginare mentale, ho la possibilità di togliere tutte quelle frecce che vanno ad aggiungersi alla prima. A volte si riesce addirittura a lasciar andare parte del dolore fisico stesso, quindi parte della prima freccia. Pian piano abbiamo la possibilità attraverso la mindfulness di riprenderci la responsabilità del nostro stato interiore e anche la libertà legata a come reagiamo a quel dolore.

Oltre a questo aspetto, abbiamo studi scientifici, quindi delle validazioni che a noi occidentali piacciono un sacco perché ci sono i numeri, ci sono le persone coinvolte, ci sono macchinari sofisticati, il che ci fa sentire molto più tranquilli riguardo alla validità di quello che stiamo trattando. Riguardo all’aiuto che la meditazione e la mindfulness danno alla gestione del dolore, c’è uno degli studiosi più citati in questo campo, Fadel Zeidan, che dal 2011 fa una serie di test ed esperimenti su come la meditazione faccia vivere il dolore in maniera diversa. Il dolore crea una sorta di azione di stress nell’organismo e quindi va ad attivare il cosiddetto sistema simpatico che poi genera le classiche reazioni di attacco o fuga. Attraverso la meditazione profonda e a livelli di consapevolezza, vengono invece attivate altre aree del sistema nervoso che hanno un effetto calmante. Nel 2011 aveva coinvolto un gruppetto di quindici persone che non avevano mai meditato e le aveva sottoposte a una sonda che riscaldata a quasi 50 gradi le andava a toccare nella parte destra del corpo o della gamba. Le persone venivano stimolate attraverso questa sonda termica e venivano registrati livelli di dolore percepito e di spiacevolezza legata al dolore, quindi l’aspetto più emotivo del dolore fisico stesso. Successivamente, faceva con loro per qualche giorno degli incontri di meditazione di venti minuti ciascuno, rifacendo poi il test con la sonda riscaldata. Ha riscontrato una riduzione del 40% del dolore percepito e di circa il 50% della spiacevolezza legata al dolore, quando la morfina o gli antidolorifici generalmente si aggirano sul 25%. Zeidan partiva dal presupposto che una delle ragioni per cui la meditazione può essere così efficace nel bloccare il dolore è che non funziona in un solo luogo del cervello ma riduce il dolore a più livelli di elaborazione. Negli anni successivi, gli studi di Zeidan hanno coinvolto numerosi volontari: in uno studio erano 74 volontari senza esperienze pregresse di meditazione. C’era sempre la sonda termica e venivano eseguite contemporaneamente anche delle scansioni cerebrali, una sorta di risonanza magnetica funzionale. I volontari sono stati testati all’inizio dello studio e sono stati poi divisi in quattro gruppi, a ognuno dei quali veniva fatto credere di ricevere un trattamento specifico del dolore a seguito della somministrazione quotidiana di alcune scosse termiche dolorose. In realtà, tre dei quattro gruppi ricevevano un trattamento senza alcun effetto antidolorifico: questo serviva a valutare un eventuale effetto placebo. Al primo gruppo, per quattro giorni, veniva applicata sull’area della pelle interessata dalle scosse dolorose, una crema placebo che era proposta come crema con effetto antidolorifico. Il secondo gruppo partecipava a un training di mindfulness di quattro giorni con una sessione al giorno di venti minuti di meditazione: i partecipanti di questo gruppo avevano meditazioni guidate con istruzioni specifiche su come prestare attenzione ai contenuti mentali ed emotivi senza essere reattivi e senza essere giudicanti. Il terzo gruppo partecipava a un finto corso di mindfulness della durata di quattro giorni ma  i partecipanti ricevevano solo istruzioni sommarie, quindi avevano venti minuti al giorno di respirazione senza nessun genere di indicazione su come essere presenti o su cosa osservare durante queste respirazioni. Il quarto gruppo non riceveva alcun tipo di trattamento ma, per venti minuti al giorno ascoltava un audio libro sulla storia naturale delle antichità. Dopo i quattro giorni ai partecipanti veniva chiesto di usare il trattamento che avevano ricevuto mentre veniva somministrata loro una nuova scossa termica dolorosa e venivano acquisite anche le scansioni cerebrali, proprio per valutare nuovamente l’intensità e la spiacevolezza della sensazione dolorosa. I risultati sono stati pazzeschi. L’effetto placebo della crema o del finto corso di meditazione aveva portato effettivamente a una riduzione del dolore percepito e della risposta emotiva. Tuttavia, i risultati nettamente migliori si sono ottenuti nel gruppo di meditazione mindfulness con una riduzione dell’intensità del dolore percepita del 27% e dell’aspetto emozionale del 44%. Era un’efficacia quasi del doppio rispetto a quella degli altri gruppi. Sono stati dei risultati pazzeschi anche per lo stesso professor Zeidan. Non solo: i risultati della risonanza magnetica hanno sorpreso ancora di più perché le scansioni cerebrali delle persone che avevano praticato mindfulness mostravano un’attivazione di aree cerebrali differenti rispetto a quelle attivate nelle persone appartenenti agli altri gruppi. Questo è il primo studio che dimostra che il sollievo dal dolore indotto dalla mindfulness è associato a meccanismi cerebrali diversi rispetto a quelli che vengono coinvolti nell’effetto placebo. La mindfulness reca sollievo anche senza portare alla produzione naturale degli oppioidi che è alla base dell’effetto analgesico di ipnosi, ago-puntura o altri. Questo apre a nuove prospettive terapeutiche, soprattutto per i soggetti che hanno sviluppato un’assuefazione ai farmaci oppiacei.
In altri studi, sempre di Zeidan, veniva associato l’uso dello naloxone, quindi venivano testati sempre soggetti sani divisi in gruppi che seguivano terapie diverse. Un gruppo meditava in associazione a questo farmaco, lo naloxone, che è un farmaco che blocca gli effetti analgesici degli oppioidi. Altri invece non meditavano e prendevano solo naloxone. Altri meditavano in associazione a un farmaco placebo e poi c’era un gruppo che utilizzava solo il placebo. Questi soggetti dovevano poi dare un valore al dolore percepito e alla spiacevolezza. I risultati hanno dimostrato che, mediamente, i pazienti che avevano meditato con naloxone avevano una riduzione del 24% del dolore percepito; il gruppo che aveva praticato meditazione assumendo il placebo aveva una diminuzione del 21%. Il risultato dimostra quindi che la meditazione è in grado di ridurre in modo significativo il dolore anche quando i recettori per gli oppioidi sono bloccati chimicamente. Di nuovo, quindi, ha un meccanismo differente rispetto ai farmaci o alle altre attività come ago-puntura o ipnosi che invece stimolano la produzione naturale degli oppioidi.

Rendersi conto di quanto la meditazione possa essere d’aiuto anche in ambito clinico è veramente molto importante, anche se forse ancora poco studiato o comunque sottovalutato. Ci sono dei movimenti, ci sono dei medici che si occupano di lavorare sul paziente a 360 gradi, quindi rendendosi conto che il sistema nervoso e il sistema immunitario è un ambiente complesso e non c’è solo il sintomo o la specifica cura ma che è importante che il paziente stia bene in generale per affrontare cure, interventi e il decorso della malattia.

Sono veramente felice di aver avuto l’occasione di approfondire questo tema e di averlo portato all’associazione che mi ha invitato. Ho voluto fortissimamente registrare oggi quest’audio perché penso che possa essere d’aiuto anche ad altre persone, perché penso che sia uno strumento (che in realtà è molto di più di uno strumento ma al primo approccio può essere anche solo questo) per provare a gestire in maniera diversa il proprio dolore, le proprie difficoltà. Oggi abbiamo parlato di quelle fisiche ma non solo. Sicuramente è possibile abbinare la meditazione alle terapie tradizionali, ai farmaci tradizionali senza creare alcun genere di scompenso o effetto collaterale.

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